Verso un nuovo patto sessuale: dalla Costituente del 1946 a oggi

di Lola Santos Fernandez

intervento al convegno Transiciones (Acto II) Modelos de Derecho del Trabajo y cultura de los juristas, Universidad de Castilla-La Mancha, Albacete, 17 dicembre 2015

Io parlerò di un’altra transizione: la transizione verso un nuovo patto sessuale che inizia a germinare nella Assemblea Costituente italiana – nel farsi del patto costituzionale – quando si mette in questione il vecchio contratto sessuale, che poggia, tra altre cose, nella relazione tra ordine simbolico patriarcale e divisione sessuale del lavoro. La divisione sessuale del lavoro secondo uno schema gerarchicamente ordinato – uomini sopra/donne sotto; uomini fuori/donne dentro la casa – è stata una costante di tutte le società storiche conosciute e precede i rapporti di produzione capitalistici. In Occidente, la specifica forma che la divisione del lavoro tra i sessi ha assunto nella fase prima mercantile e poi capitalistica ha raccolto e confermato questa eredità simbolica, istituendo la sfera del lavoro salariato “produttivo” come sfera maschile e quella domestica “non produttiva” come sfera femminile. E ha anche ordinato simbolicamente i lavori maschili e femminili nel mercato secondo un simile ordine gerarchico (segregazione verticale e orizzontale). (Giordana Masotto). Nei dibattiti dell’Assemblea, questa separazione e questo ordine incominciano a essere messi in discussione in tre direzioni principali:

  1. Abbozzo di una nozione più ampia di lavoro che comprenda tutto il lavoro necessario per vivere

  2. Valorizzazione del lavoro riproduttivo portandolo alla luce

  3. Arricchimento del lavoro produttivo con saperi derivanti da quello riproduttivo.

1. La nozione di lavoro

Nel dibattito costituente sull’articolo 1, L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, si parlò molto di cosa si dovesse intendere per lavoro e, benché non intervenisse nessuna delle 21 donne dell’Assemblea (composta da 556 membri), ci furono diversi interventi interessanti.

Ad esempio, nella discussione se fondare la Repubblica italiana sul “lavoro” o sui “lavoratori”, si disse: “Abbiamo usato il Il termine ‘lavoratori’ in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione” (Renzo Laconi, maestro, comunista).

Sul valore del lavoro nella società si disse: “Il lavoro, insomma, come elemento che assume valore nell’armonia dello sforzo collettivo perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun(o) uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore (Lelio Basso, socialista, avvocato).

E anche: “Non è la Repubblica degli operai e dei contadini quella che concepiamo, né quella degli operai e contadini più tecnici e i professionisti; ma una Repubblica nella quale abbiano cittadinanza anche le attività non meramente economiche, una Repubblica in cui ci sia posto per tutti i cittadini partecipanti utilmente alla vita nazionale” (Paolo Rossi, socialista, docente universitario).

Ora io mi domando: non è forse questo il modo in cui storicamente le donne hanno partecipato con il loro lavoro alla società? Con un lavoro di partecipazione alla vita, al progresso, alla ricchezza della nazione, anche quando non si tratta di attività meramente economiche, ma utili alla vita nazionale, lavorando e dando senso al lavoro attraverso le relazioni? Senza dirlo esplicitamente, questi uomini di sinistra si riferivano anche al lavoro di creazione e ri-creazione della vita che fanno più le donne degli uomini. Ma non potevano nominarlo perché per loro l’attività produttiva era misurata sul corpo maschile. E questo è confermato dal silenzio delle donne presenti: sono assenti dal dibattito e quindi manca qualsiasi riferimento al lavoro domestico.

Questo iniziale silenzio femminile nell’Assemblea Costituente potrebbe essere frutto di un atteggiamento di prudenza politica, cosa che non si ripete più avanti, soprattutto nel dibattito sull’art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a paritá di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro debbono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Qui le donne si autorizzano a parlare… e come parlano!

Sulla nozione di lavoro in generale, il dibattito tra le tre donne più attive del processo costituente – Maria Federici (maestra, democristiana) Angelina Merlin (maestra, socialista) e Teresa Noce (operaia, comunista), tutte tre con un ruolo rilevante nella Resistenza antifascista – incominciava a mettere in questione le basi del vecchio patto sessuale. In una delle discussioni iniziali su quale lavoro femminile tutelare o su chi considerare titolare di diritti soggettivi, Teresa Noce dice:

La lavoratrice capo di famiglia è quella che mantiene la famiglia e per mantenere la famiglia fa un lavoro. Ma la donna lavoratrice non è soltanto l’operaia, bensì anche quella che, avendo una numerosa prole da allevare, non può lavorare; in tal caso viene a mancare la qualifica di capo-famiglia che le consentirebbe di godere di determinata assistenza. La donna operaia ha qualche diritto, ma la donna casalinga, la massaia rurale, la contadina non hanno nessun diritto all’assistenza.”

Benché i concetti di riferimento siano il lavoro produttivo e le sue misure classiche di valorizzazione – salario, stabilità e garanzie (di fatto facevano riferimento al diritto all’assistenza economica) – queste donne incominciano ad avere buone intuizioni sul considerare “lavoro” anche l’attività della casalinga, sul lavoro riproduttivo e la necessità di dargli riconoscimento, valore sociale, in questa fase per mezzo di un “salario assistenziale”.

2. La valorizzazione del lavoro riproduttivo

Per andare avanti in queste riflessioni – come dare valore al lavoro di creazione e ri-creazione della vita – le costituenti devono affrontare le conseguenze dell’intervento maschile che impone un nuovo tema di discussione: “la funzione essenziale familiare”. Molto polemica fin da subito. Questo le fa deviare momentaneamente dai loro interessi politici e, forse, anche dai loro desideri (succede spesso, anche oggi). Quegli uomini, temendo che l’uguaglianza salariale rappresenti un invito costituzionale ad abbandonare le case, vogliono ricordare alle donne quale sia il loro posto originario esaltando il loro ruolo familiare. Ma vediamola questa “essenziale funzione familiare”:

Il vostro luogo naturale è la casa, la famiglia, il focolare, siete gli angeli della famiglia…” queste e altre simili furono le parole usate dai democristiani per illustrare il ruolo essenziale della donna nella famiglia. Che non decidessero di lasciare le case adesso che gli si riconosceva la possibilità di lavorare fuori con un salario uguale! disse un democristiano. Tutto ciò produce un dibattito inizialmente soprattutto maschile, dal momento che è in gioco la loro posizione privilegiata nel contratto sessuale. Solo la comunista Nilde Iotti interviene in un primo momento contro quell’espressione, preferendo parlare solo di “missione familiare”. Perché, come poi avrebbero detto le altre donne, certamente era qualcosa di importante e di cui cercavano di riappropriarsi. Questo fu il gesto politico in quel momento: riappropriarsi della maternità e del lavoro riproduttivo risignificandoli.

Così Maria Federici cerca di risignificare questa “essenziale funzione familiare” da un altro punto di vista: non dalla non-libertà come pretendono i suoi colleghi di partito, ma dalla importanza di questa funzione per la società. Per la Federici, questa funzione della donna è essenziale non solo per la famiglia ma per l’intera società. Dice: “io credo che appartenga alla esperienza di tutti che la donna dispieghi nella famiglia un complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico”.

Il blocco femminile di sinistra invece, preferisce proporre la sostituzione dell’espressione “essenziale funzione familiare” – viziata all’origine – con la parola “madre”, dando a questa la posizione fondamentale che dovrebbe occupare in qualsiasi società. La socialista Angelina Merlin, facendosi portavoce del blocco femminile della sinistra assembleare, dice:

Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità (…). Io penso che la Costituzione, assicurando una adeguata protezione alla madre ed al bimbo, avrebbe garantito la difesa della società tutta intera e si sarebbe data un suggello di nobiltà, includendo la parola più bella e più santa nella quale si compendia la vita: Madre”.

La redazione finale dell’articolo risulta composta da entrambe le espressioni: “essenziale funzione familiare” e “madre”. Il confronto sostenuto da queste donne di fronte alla provocazione maschile, per cercare di ricondurre la società verso un ordine simbolico materno, dimostra che si stava iscrivendo nella Costituzione l’embrione di un nuovo patto, in cui il lavoro riproduttivo, più materno che paterno, ha un valore centrale. La valorizzazione del lavoro riproduttivo è, se non negli obiettivi, nella cultura delle madri costituenti.

3. L’arricchimento del lavoro produttivo con saperi derivanti da quello riproduttivo

Questo intento si legge nelle parole della Merlin quando dice, come abbiamo visto sopra: “il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità”. Portare la maternità, la civilizzazione, la vita al lavoro… è questa l’invenzione che viene concepita in questa fase e che si sviluppa alcuni anni più avanti con Il doppio sì (Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano).

Questo discorso appare chiaro anche nella parte finale della discussione sull’accesso delle donne alla magistratura (art. 106). Di fronte alle obiezioni maschili che le considerano instabili, corpi emotivi e sentimentali o passionali, alcune rispondono proprio sostenendo che il femminile è un di più per il lavoro produttivo e, in questo caso, per il lavoro di giudici e quindi per il diritto. Maria Federici fa riferimento a una specie di “tipicità femminile”: “da un lato una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possano nuocere, sono requisiti preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia”. Nella stessa direzione, Maria Maddalena Rossi, chimica, comunista, sostiene che “le qualità di sensibilità, di intuizione, di tenacia, di pazienza, di coscienza, il senso di umanità che spesso si riscontrano nella donna, uniti alla conoscenza profonda del diritto, troverebbero un impiego infinitamente utile nel campo della Magistratura”. Come dimostra – rispondendo a un’obiezione del socialista Giovanni Persico – Il mercante di Venezia, dove Shakespeare fa agire “un giudice dotato di finezza, di cuore, d’intelligenza de onestà, un giudice che amministri la giustizia vera (…) la giustizia dello spirito della legge e non della lettera soltanto”. Questo magistrato è una donna, Porzia, la quale salva la vita di un innocente che dovrebbe pagare con una libbra di carne del suo petto. Porzia si appoggia a una legge che non menziona il sangue e quindi invita i presenti a tagliare un pezzo di pelle senza spargere sangue. La capacità interpretativa di Porzia, per Giovanni Persico è segnale di una cattiva amministrazione della giustizia perché un giudice uomo avrebbe detto che “è vietato dalla morale, non si può vendere il proprio corpo, che è una domanda inammissibile, è contra legem, il tuo contratto è nullo. E con una questione di diritto avrebbe risolto il problema, senza ricorrere al cavillo della carne e del sangue”. Per Maddalena Rossi si tratta invece di andare oltre la legge, aprendo spazi alla giustizia con l’imprevisto femminile. Ecco di nuovo il germe di un’altra pratica, quella che ha a che fare con il modo in cui molte donne entrano nei luoghi della giustizia e che, in realtà, non è tanto diversa da come lo fa Porzia (Diana Sartori).

Dalla Costituente ai giorni nostri il processo di ridefinizione del patto sessuale è andato avanti, benché continui a trattarsi di una transizione incompiuta.

A partire dagli anni sessanta, sia in Italia sia in altri paesi, le donne in prima persona e questa volta in massa mettono radicalmente in questione l’ordine simbolico dominante. Su tutti i fronti, dalle relazioni quotidiane tra i sessi fino al diritto: riforma del diritto di famiglia (1975), depenalizzazione dell’adulterio (1968), libertà di divorzio (1970), legalizzazione dell’aborto (1978); nel lavoro, tutela della maternità e legge di uguaglianza del 1977.

I guadagni di questo processo giuridico sono stati molti e vanno oltre l’aspetto giuridico. Perché non si tratta solo di ciò che si è cristallizzato nelle leggi, molte delle quali ambiguamente maschili: il fatto è che il movimento delle donne ha prodotto molta autocoscienza e coscienza politica, e questo ha permesso alle donne di riappropriarsi dei propri corpi, di praticare la libertà femminile relazionale, di esprimere nuove forme politiche. Sono guadagni che in se stessi comportano la rottura del vecchio patto sessuale e a partire dai quali si continua a rinegoziare il nuovo patto e si fanno passi avanti sul punto che sta al centro della rottura della divisione sessuale del lavoro. Questo punto centrale è la elaborazione di una nozione di lavoro ampia e univoca, in cui far confluire tutti i semi sparsi nell’Assemblea Costituente, e che oggi ha già un inquadramento politico – teorico e pratico – molto avanzato.

Quindi – come ci ha detto Laura Mora in Atto 1 delle Transizioni – “il lavoro è molto di più”. E così è, il lavoro non è solo attività materiale e immateriale, ma è anche costruzione simbolica (di senso) impregnata di vita sociale, è strumento di autorealizzazione, fattore di creazione, di autonomia, di responsabilità e di relazioni (Laura Pennacchi). La ricomposizione del lavoro, produttivo e riproduttivo, si fa a partire dalle donne come soggetti complessi – in quanto ricompongono le dicotomie anima/corpo; produttivo/riproduttivo; ecc. – il che incide a sua volta sulla nozione stessa di soggetto, dal momento che tutti e tutte possiamo riconoscerci come soggetti interdipendenti e vulnerabili (Giordana Masotto). Questi nuovi soggetti plurali compiono una trasformazione dello spazio pubblico attraverso pratiche o lavori di cittadinanza che raccolgono esperienze coscienti e consentono numerose innovazioni. E, proprio perché nascono da soggetti interdipendenti e sono fatti da competenze reali, consentono cambiamenti e costruiscono civiltà, con una costruzione fatta di parole e con uno sforzo che risponde al desiderio di un senso nuovo di benessere o felicità (Marisa Forcina). Accettare l’interdipendenza, condizione per l’esistenza dell’umanità in società non patriarcali, comporta che la società nel suo insieme si renda responsabile del benessere e della riproduzione sociale. Ciò comporta un cambiamento nella nozione di lavoro e la rinegoziazione dei tempi delle persone: redistribuendo il lavoro remunerato e “obbligando” gli uomini e la società a farsi carico della parte di cura che tocca loro, come ci dice la ecofemminista Yayo Herrero nel libro L’ecologia del lavoro. Il lavoro che sostiene la vita, a cura di Juan Escribano e Laura Mora. Questo libro ci indica come avanzare in questo percorso tracciando “una nuova mappa dei lavori socialmente necessari per soddisfare i bisogni delle persone in comunione con la realtà di tutti i viventi e con i doni con cui conviviamo” (Laura Mora).

Oggi in questo seminario abbiamo potuto partire da un’origine, l’Assemblea Costituente, e proprio quello che è accaduto dopo – la rivoluzione delle donne a partire dagli anni sessanta/settanta – ci consente di dare un senso alle parole e ai silenzi del dibattito costituente e ci invita a raccogliere la sfida che è nata allora e che si potrebbe esprimere nella riscrittura dell’art. 1 della Constituzione italiana: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro necessario per vivere.

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Sabato 14/11: Un nuovo modello di sviluppo, tra economia e filosofia

Sabato 14 novembre 2015 ore 18.00 Libreria delle donne di Milano,
via P. Calvi 29

Un nuovo modello di sviluppo,
tra economia e filosofia

La costruzione di un nuovo modello di sviluppo è la risposta da dare alla rivoluzione neoliberista e alle profonde inquietudini che ha generato.

Questa è la conclusione cui è arrivata Laura Pennacchi in un percorso lungo e complesso, tra economia e filosofia: lo espone nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo (Ediesse 2015).

Raccogliamo volentieri il suo invito a re-agire, a riscoprire soggettività, socialità, politica, a mettere in campo una nuova apertura affettiva verso il mondo.

Ne discutiamo con l’autrice, con Ota de Leonardis, docente di Sociologia a Milano Bicocca e con Giordana Masotto del Gruppo lavoro della Libreria delle donne.

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7 marzo: un incontro su femminismo e neoliberalismo

Sabato 7 marzo  alle ore 18.00 si tiene presso la Libreria delle donne di Milano (via Pietro Calvi 29) un incontro del ciclo Femminismo tremendamente vivo.

Lavoro, socialità, affetti, progetti, voglia di esserci e contare:
la nostra vita di tutti i giorni sta in un sistema che mira al cuore della soggettività,
delle relazioni, dei desideri. In che modo la politica delle donne oggi può schivare la presa neoliberale e rilanciare la libertà femminile?

Tristana Dini e Stefania Tarantino
ne parlano con Laura Colombo e Sara Gandini a partire da due libri:
Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà (Natan 2014) di cui sono le curatrici
Aneu metròs/senza madre. L’anima perduta dell’Europa. Maria Zambrano e Simone Weil di Stefania Tarantino (La scuola di Pitagora 2014).

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REPORT DI AGORA’ 28 GENNAIO 2013

di Pinuccia Barbieri

In vista del lavoro di rilettura dell’esperienza fin qui fatta dell’Agorà, (prossima riunione del 22 febbraio) ho preparato un report che mancava.

Per Giordana Masotto, che introduce la discussione, raccontare di lavoro in tempi di crisi non basta in quanto si rischia di restare ingabbiate nel proprio vissuto e non prorompere, ci si può sentire isolate anche nella grande rete di connessioni. Dalle precedenti Agorà è emerso che scommettere sulla precarietà non ha portato i risultati sperati anche per chi ha creduto questa condizione come catalizzatrice di lotte negli anni.
Per Giordana serve fare un passo avanti e trovare risposte non individuali a questa condizione, soluzioni creative in cui la consapevolezza possa entrare nella materialità delle pratiche del lavoro aprendo conflitti e facendoci vivere meglio. “E’ necessario trovare insieme orientamenti condivisi, sentirci libere di portare nel lavoro le esigenze della vita e non viceversa”.
E’ importante ragionare su collaborazione e competizione. Giordana definisce la competizione estrema come valore dominante oggi, una moneta circolante con cui si giudica il successo di una persona anche in casi non si condivida questo sistema di valore. Questa competizione peggiora le condizioni di lavoro. Giordana chiede: cosa si rischia a cooperare?

Silvia Motta parte dalla domanda di Lorenza che chiede : interagire è lo stesso di cooperare? Interagire non è la stessa cosa di cooperare, dice, si interagisce per mille motivi. Quello che può cambiare le interazioni sono gli atteggiamenti che possono essere cooperativi o no. La cooperazione richiede la creazione di condizioni adatte per cooperare, tema che ha tante sfaccettature. La cooperazione non è una cosa spontanea, è una conquista.
Racconta la sua esperienza nell’ambito del suo lavoro autonomo di trent’anni nella comunicazione, molto simile alla condizione precarie perché è in proprio. In questo tipo di lavoro c’è competizione che può essere anche immaginaria: ogni persona che fa il tuo stesso lavoro è una/un concorrente ma nello stesso tempo è anche uno stimolo a fare bene e migliorare. Questo tipo di lavoro si gioca sul risultato e sulla valutazione del risultato.
Secondo Silvia è importante collaborare senza aver timore di chiedere, cosa che per lei era difficile. Chiedere si lega a darsi dei riconoscimenti, chiedere è dare valore all’altro e questo riconoscimento è poco diffuso. Oggi si pensa che chi ha svolto bene un lavoro ha fatto solo il suo dovere. Chiedere e rinforzare le situazione collaborative: ad esempio proporsi in due per un lavoro, guadagnando meno ma valorizzando il piacere di lavorare insieme. Sottolinea che non sempre collaborare fa nascere una relazione, questa nasce quando c’è un rapporto di fiducia.

Una partecipante suggerisce che la cooperazione è anche informazione. Una delle più grandi pecche del patriarcato è la scarsità di informazione e racconta che la consapevolezza del suo valore è venuta con il tempo. La partecipante ritiene sia utile creare reti che ci sono già ma alle quali non si accede subito, reti di informazione di base (paga, condizione lavorativa) per essere consapevoli e creare rapporti di solidarietà. Si discute sul fatto che è importante lavorare per essere pagate ma anche per acquisire competenza anche se la competenza e la forza lavoro deve venir pagata.

L’intervento di Luisa Muraro non si sente.

Annamaria Rigoni sostiene che la competizione non è sempre distruttiva ci possono essere due persone alla pari che vogliono raggiungere un obiettivo senza distruggersi e il conflitto può portare a risultati migliori rispetto il punto da cui si parte. La competizione, secondo Annamaria, non è in antitesi con la collaborazione.
Annamaria parla di sensazione di fastidio in certe occasioni quando non può competere, ad esempio nel caso in cui ci siano irregolarità nei concorsi.

Silvia Motta specifica che quando parlava di competizione immaginaria parlava di uno stimolo per crescere e si trattava quindi di una competizione sana.

Lia Cigarini riprende un’idea di Chiara Martucci nella precedente Agorà in cui parlava di codice di autoregolamentazione, vista come una via per uscire dalla drammatica situazione di crisi del lavoro. “Questa sera emerge il tema di promuovere forme di cooperazione. Il mio interrogativo è a quali forme politiche, voi giovani, pensate per arrivare a connettere lavori che per definizione sono individuali, frammentati?”. E’ importante inoltre non confondere la relazione politica trasformativa con una relazione strumentale o superficiale (ad esempio per il solo fatto di essere connesse in rete).
Ma, dice Lia, noi vogliamo modificare radicalmente il lavoro, portando pensiero e pratica delle donne “però di questo noi dobbiamo discutere, perché l’Agorà è uno strumento per allargare la presa di coscienza e scambiarci idee però non può essere un luogo dove si coalizzano quelle della situazione delle precarie” e chiede se la pratica di relazione intesa in senso forte ha qualche possibilità o bisogna fare una mediazione molto più ampia.
Lia fa riferimento al lavoro di Macao che ha molto messo l’accento su determinati lavori cognitivi che, nell’inchiesta di Acta sembrano meno pagati rispetto ai lavori ingegneristici o di consulenza, qualche gesto provocatorio, dice, bisogna farlo.

Chiara Martucci riprende il discorso del codice di autoregolamentazione come una strada da percorrere collettivamente avendo una sorta di dicotomia. Da un lato le istituzioni assenti e lontane, e dall’altro la giungla della mancanza di regolamentazione che porta indebolimento. “Mi interessava lo spostamento simbolico partendo dal primum vivere, rivoluzione copernicana a fronte del primato di economia e lavoro come adesione alla mission, per passare alle pratiche e all’agire, ai codici di autoregolamentazione.”
Si parla quindi di una battaglia culturale, interviene Lia. Chiara risponde che “è una cosa praticabile in questa dicotomia. Sono pratiche sociali diffuse”

Elisabetta dice di aver trovato utile la coalizione con coetanee per aumentare il potere di negoziazione. Racconta di essere una Pi e di avere relazioni molto forti con le donne. La questione che pone è la condivisione di informazione certo ma non solo quello. Importanti è rafforzare le relazione e un lavoro simbolico. La relazione tra precarie e chi gestisce potere è una contaminazione produttiva.

Vita Cosentino ribadisce che serve un lavoro sul simbolico. E’ un lavoro di immaginazione.. più che un codice di autoregolamentazione, se la si vuole chiamare una battaglia culturale che poi è a livello di sociale diffuso. Il lavoro simbolico può spostare.

Una partecipante sostiene che la precarietà è una dinamica poco civile, parla di una precarietà dell’etica. Riferisce poi di una discussione con un gruppo di precarie fiorentine, Corrente Alternate, “Mi sembra che venga affrontata unicamente sul livello orizzontale come fosse una problematica di civilizzazione a livello locale che non coinvolge livello decisionale, non facendosi carico del conflitto da agire a un livello superiore. Questa è un amputazione che deve essere sanata escogitando dei sistemi che trovino delle forme. L’altra cosa che non viene presa in considerazione è che in una società democratica ci sono obblighi che fanno carico allo Stato.
Sul reddito di cittadinanza. La partecipante cita Stefano Rodotà che indica nel reddito di cittidinanza una conseguenza di articoli della costituzione che auspicano una sopravvivenza degna.

Giordana fa notare che emerge la dimensione orizzontale, conflittuale, contrattuale. “Il problema posto non è metterci d’accordo tra di noi per sopravvivere. Se delle persone si mettono insieme è per mettere le basi di una contrattazione. Noi vogliamo ribaltare i paradigmi a partire dalle condizioni minime e imparare a dire quello che si vuole. Partiamo da noi, vivere bene non sopravvivere. Il lavoro si deve confrontare con soggetti che portano esigenze, non si parla di piccole regole cooperativa ma di soggetti che ci possono essere”.

Intervento che non si sente

Il ragazzo di Macao introduce nella discussione il tempo, non quello cronologico ma tempo come possibilità che consente di prendere una decisione. “Avevo voglia di parlare di lavoro in modo diverso non so se questa è cooperazione, e è fare informazione e conoscenza, ma mi sono preso del tempo”.
La questione del tempo riguarda tutti sia precariato sia i lavoro cognitivi.
Il lavoro oggi colonizza le relazioni. Si sta in relazione solo se c’è la possibilità di un lavoro. I desideri che hanno portato alla mobilitazione di Macao erano molto eterogenei e sono riusciti a recuperare tempo da relazioni strumentalizzati.
“Abbiamo usato la parola lavoro e non attività perché il lavoro ha dignità, noi stiamo lavorando anche se la sociologia dice che il lavoro è tale solo se pagato, ma dobbiamo pensare un’altra idea di lavoro
L’auto-inchiesta ha evidenziato tante persone nel mercato del lavoro, nell’industria creativa e tanta gente sotto la soglia della povertà. “C’è comunque una rivendicazione del senso del produrre. Si mettono insieme persone diverse con guadagni diversi. Anche chi è dentro il mercato ha rigetto verso il senso di quello che produce”.

Una partecipante sostiene che la soggettività che vuole porre un limite al lavoro, rappresenta un passaggio simbolico forte, oltre lo schiacciamento della condizione lavorative precaria. Lo scatto simbolico spinge verso la ricerca di pratiche che consentono di far valere questo varco, il varco simbolico che il soggetto apre quando pone un limite.

Licia racconta la sua esperienza di lavoro dal ‘98 lavoro nel terzo settore. Chi lavora nel terzo settore son persone altamente qualificate e sono donne perché già scelta terzo settore si sa che non si diventa ricche e si è appagate dal lavorare sia in team che in relazione con utenti. Si lavora a progetto e si hanno scadenze quindi si è organizzati e c’è una relazione di collaborazione In questi progetti è molto forte la relazione e le lavoratrici che passano da lavoratrici a progetto al posto da dipendente perdono questa relazione.

Lia Cigarini insiste sulla pratica politica. C’è necessità di difendersi da una situazione economicamente ed esistenzialmente drammatica. La pratica di mettere in parole l’esperienza per una modificazione radicale del linguaggio e in generale nel modo di lavorare. “Vorrei la prossima volta discutessimo di come fare, Vita proponeva di dare più animo e più pensiero e calore alle difese che sono sacrosante”
La pratica di relazione non ha il giusto peso nella parola competizione che è molto finalizzata al prodotto creativo, mettere insieme costi e vantaggi e “sono d’accordo con Elisabetta di lavorare sul linguaggio e sul simbolico senza staccarci da un’azione di difesa”.
Far scoccare una scintilla tra presa di coscienza e soggettività politica. La politica della differenza non significa che le donne sono superiori agli uomini ma che è un’invenzione delle donne ,pratica preziosa per donne e uomini in cui si mette in gioco la soggettività, si parte da sé e si pratica la relazione. Sono d’accordo con la pratica che ha sta facendo Macao dei gesti provocatori.

Una partecipante racconta che da 35 anni fa un lavoro liberato nel senso che ha una pensione minima e si dedica alla politica delle relazioni, con grandi soddisfazioni, a volte qualche piccolo guadagno e tanta ansia da sopravvivenza.
“Auspichiamo un’altra economia e soprattutto le donne per aver tempo liberato stanno creando altri modi per stare fuori dal mercato di sopravvivenza, anche chi aveva lavori pagati bene preferiscono modalità relazionale e presa di coscienza. Il problema è vedere se troviamo nessi tra pratica politica del cambiamento profondo che parte dalla soggettività, tra bisogno di difesa e la questione della vita.

Una partecipante racconta di essere diventata madre e si chiede: “C’è un modo che consente di curare la vita senza passare dal reddito? Io ho bisogno di reddito. C’è qualcosa che posso escogitare per ridurre questo bisogno?”

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Proposte e appuntamento

di Silvia Motta

Nella riunione del 20 gennaio sono emerse due proposte differenti, ma interconnesse/non separabili.

La prima proposta, già operativa:

Rintracciare quelli che a ognuna di noi sono sembrati nodi/contenuti centrali/parole-chiave degli incontri dell’Agorà con lo scopo di:

– mettere in comune i contenuti/nodi/riflessioni che ognuna di noi ritiene interessanti o più importanti

– discuterne insieme e ragionarci sopra per arrivare a un testo possibilmente divulgativo   e efficace sul piano della comunicazione (da pensare con maggior cognizione di causa dopo aver fatto la prima parte del lavoro).

Operativamente: ci siamo date il compito di rileggere individualmente i resoconti che sono sul blog (tutti quelli che erano stati fatti) e segnarci/sottolineare e/o trascrivere i contenuti che desideriamo valorizzare.

Poi ci troviamo a mettere in comune questo lavoro in un ‘incontro lungo’ da tenere sempre alla Libreria delle donne, che sarà:

domenica 22 febbraio dalle h. 10.00

La seconda proposta

Mettere in campo un’iniziativa pubblica cittadina sul tema del lavoro professionale gratuito, a partire dagli scambi interessanti che si erano già avviati nell’incontro di prima di Natale. Per il momento non abbiamo messo in campo un lavoro specifico su questo punto anche per questioni di tempo/disponibilità. Ne riparleremo quando ci vediamo.

Silvia Motta

 

 

 

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Rappresentare e contrattare a misura dei soggetti in carne ed ossa

di Lia Cigarini

Intervento al convegno “Rappresentanza sindacale: la lezione dei Consigli e il futuro da contruire” organizzato da Associazione Pio Galli e FIOM nazionale (Lecco 30.01.2015)

Voglio precisare che qui esporrò il pensiero elaborato sul lavoro, sul sindacato e sulla delega da un gruppo costituito più di vent’anni fa, che comprendeva donne della Libreria delle donne di Milano e sindacaliste, sia funzionarie che delegate. Scopo del gruppo era quello di ascoltare ed elaborare l’esperienza lavorativa delle donne entrate in massa nel mercato del lavoro a partire dagli anni ’80.

Voglio anche dire che questo testo in particolare è stato pensato e scritto insieme a Giordana Masotto.

Non parlerò di donne né come categoria né come genere. Parlerò di soggetti politici – donne e uomini – uno dei problemi chiave che oggi abbiamo di fronte.

Lo scenario della fabbrica dal 69/70 è ben noto: movimenti e sindacato si contendono lo spazio della fabbrica e del lavoro. I consigli dei delegati sono stati lo strumento con cui il sindacato ha saputo misurarsi con la grande partecipazione di stampo movimentista di quegli anni. Non si è arroccato in difesa, ma ha corso dei rischi, riconoscendo la forza di quei movimenti e di quella partecipazione.

A mio parere, l’elemento simbolico che più caratterizza l’esperienza dei consigli è la scheda bianca, cioè una scheda senza alcun nominativo indicato. Il delegato eletto, quindi, è espressione diretta del gruppo di persone con cui lavora, ne è parte (gruppo omogeneo). Questo simbolo si è perso: anche nell’attuale progetto di legge Fiom ci sono liste di nomi proposte dalle organizzazioni sindacali. Senza entrare qui nel merito dell’evoluzione – o sarebbe meglio dire, involuzione – dei consigli, mi preme solo sottolineare il ben noto passaggio ai comitati esecutivi per evidenziare un fatto illuminante, una spia del conflitto tra i sessi non dichiarato, accaduto credo alla Siemens di Milano: lì molte donne erano state delegate dai reparti, tuttavia, nel comitato esecutivo non ce n’era più neppure una.

In modo insolito in questi convegni, io vi disegnerò ora un secondo scenario a partire dal recente film dei fratelli Dardenne “Due giorni una notte” Sandra, la protagonista, ha un marito, due figli e un lavoro presso una piccola azienda di pannelli solari. Sta uscendo da una brutta depressione. Proprio per questo Sandra sta perdendo il suo lavoro, grazie a un tipico ricatto dei giorni nostri: o la borsa (un bonus da mille euro per i colleghi) o la vita (il posto di lavoro per lei). Sandra ha un sabato/domenica di tempo per convincere compagne/i di lavoro a non cedere al ricatto: nella votazione del lunedì si deciderà definitivamente la sua sorte.

Sandra va a parlare ad una ad uno con i colleghi di lavoro. Va nelle loro case. Poi arriva il lunedì e la votazione. Perde il posto. Eppure, ora che è tutto finito, tutto comincia. Sandra ne esce forte perché nelle macerie dei diritti e nella nuova capacità di ricatto dei padroni, agisce in prima persona, si misura con le vite intere degli altri. Ha scoperto le persone in carne ed ossa che sono i colleghi, si è misurata con la loro irriducibile singolarità. Ha immaginato di poter agire politica in prima persona e l’ha fatto. Fragile com’è ha immaginato di poter cambiare la realtà. È questo che l’ha trasformata. La politica e la vita sono tutte qua.

Sandra è diventata forte perché è diventata un soggetto consapevole. Non c’è delega possibile oggi al diventare soggetti politici. Questa è la nuova sfida che ha di fronte il sindacato: misurarsi con i nuovi soggetti del postfordismo senza nostalgie, senza rimpianti, ma cogliendone le enormi potenzialità. Oltre l’individualismo, l’isolamento, le fragilità.

Questo abbiamo cercato di fare in questi anni come gruppo lavoro della Libreria di Milano. Dando vita – insieme ad altre e altri – a uno spazio pubblico di confronto: l’Agorà del lavoro di Milano. Una piazza pensante che vuole ripensare l’economia e il lavoro, tutto il lavoro necessario per vivere, a partire dall’esperienza complessa che ne hanno le donne. Certo, abbiamo il vantaggio di sapere – attraverso la presa di coscienza, la pratica che ha inventato il movimento delle donne – che la consapevolezza e la libertà si costituiscono a partire da sé, dalla propria esperienza messa in comune. E ci appare sempre più chiaro che non ci sono più scorciatoie a questo percorso.

Attraverso questa pratica abbiamo capito alcune cose sui nuovi soggetti politici. Ne voglio evidenziare due, fondamentali.

I nuovi soggetti sono donne e uomini. Invece il ‘900 ha appiattito le donne sul lavoratore maschio. Evitando di affrontare una questione: la divisione sessuale del lavoro. O meglio, immaginando che si sarebbe risolta automaticamente con l’emancipazione delle donne. Invece, le lotte per il salario familiare, le tutele per l’occupazione femminile, il sistema di welfare centrato sulla figura del capofamiglia hanno contribuito a ribadire la complementarietà del sesso femminile rispetto al maschile.

Dopo mezzo secolo di incremento della partecipazione femminile al lavoro retribuito, e dopo diversi interventi normativi per la parità e contro le discriminazioni, il tema più generale della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne, fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra “lavoro produttivo” e “riproduttivo” tra lavoro per il mercato e lavoro domestico e di cura.

Noi dicevamo che bisogna ridiscutere questa separazione. Ci siamo riuscite: la maternità è oggi nel mercato e di conseguenza è saltata quella separazione. Adesso è ora di riconoscere nessi, interdipendenze e ordine di priorità tra queste diverse componenti del lavoro umano; sosteniamo che la regolazione dell’uno non può avvenire senza ridiscussione dell’altro; non vogliamo più sentir parlare di lavoro, tempi e organizzazione del lavoro, welfare e crescita – e nemmeno di lotte dei lavoratori – senza riconoscere che il lavoro di riproduzione e manutenzione della esistenza umana è componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere. Questo lavoro non può più essere concepito come un insieme di attività residuali, tenute fuori dalla storia, dall’economia e dal diritto, affidate alla sola benevolenza femminile o alla sola contrattazione tra i singoli. Una responsabilità che rende le donne garanti in ultima istanza della qualità della vita per tutti, nella quotidianità e nel corso di tutta l’esistenza.

Oggi la doppia competenza delle donne cambia potenzialmente di segno alla – non nuova di per sé – messa al lavoro delle donne e getta le basi per un’altra idea di lavoro e di economia del vivere per tutti: è quello che abbiamo chiamato Primum vivere anche nella crisi. Si tratta dunque di riconoscere che non è più possibile pensare di modificare i rapporti di produzione – e i rapporti sociali che ne derivano – senza pensarli insieme a quelli di riproduzione, e senza ripensarli entrambi alla luce della divisione sessuale del lavoro che li sottende.

Solo se accettiamo questa complessità del concetto ( e della materialità) del lavoro sociale necessario nelle società contemporanee – e solo se accettiamo senza troppa paura la conflittualità che può derivarne sia tra uomini e donne sia tra capitale e lavoro – possiamo discutere di lavoro oggi, di forme e azioni politiche, di istituti normativi. Solo se assumiamo questo inedito – storicamente – punto di vista in tutta la sua valenza politica siamo in grado di fare spazio tra le macerie post fordiste e di (ri)metterci in gioco, donne e uomini, lavoratrici e lavoratori.

Una nota a margine su questo punto.

Siamo in relazione con molte sindacaliste presenti nell’Agorà del lavoro soprattutto quelle di Brescia, Reggio Emilia, Pesaro e alcune di Milano sia funzionarie che delegate. Dalla loro esperienza cresce la necessità urgente di fare un bilancio della presenza delle donne nei sindacati (oltre che nei partiti e nelle istituzioni). Molte dicono che le quote non hanno aiutato. Anzi, unendosi alla ideologia della conciliazione, sono state il bromuro che ha spento la capacità di portare il conflitto per modificare nella sostanza il pensiero e la pratica sindacale e politica. Lo dicoco chiaramente Michela Spera e Laura Spezia in un articolo su Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne (inserto Pausa lavoro): negli anni ‘70 e inizio ‘80 c’è stata un’esperienza nel sindacato che si caratterizzava per un forte intreccio tra femminismo e lavoro che puntava a costruire una soggettività politica delle donne nel sindacato. Secondo molte sindacaliste riesci ad agire il conflitto per cambiare le cose anche all’interno del sindacato se hai una pratica politica in autonomia. A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 invece, è prevalsa l’omologazione e così è iniziata una lunga battaglia insensata sulle quote e le norme antidiscriminatorie. Questo non ha risolto e non risolve la questione fondamentale per le donne nel sindacato: affermare il punto di vista delle donne per operare modifiche nel lavoro e nella società.

Mettere a fuoco la divisione sessuale del lavoro ci porta al secondo aspetto fondamentale dei nuovi soggetti.

Nei nuovi soggetti lavoro e vita si intrecciano in forme e misure inedite nella storia: sono soggetti in carne ed ossa che non possono e non vogliono più dividere tempo di vita e tempo di lavoro, bisogni, necessità, e desideri.

Vogliamo lasciare che tutto ciò sia colonizzato dal neoliberismo onnivoro? Che l’abbia vinta il biocapitalismo nel suo intento di mettere al lavoro e trarre profitto dalle vite intere?

Molte donne e uomini sono convinti che ci sia una strada di libertà. E comunque da qui non si torna indietro. Sono intrecci complessi ma inevitabili se vogliamo raccogliere la sfida del presente. Ad esempio, i nuovi soggetti, soprattutto le donne, sono sensibili al tempo di lavoro e al senso del lavoro cioè a mettere in discussione l’organizzazione del lavoro, spesso più che al denaro. È un dato interessante, che però si intreccia con la piaga forse più grave dei nostri giorni, quella del lavoro non pagato (emerge benissimo in occasione di Expo). E cioè anche quando c’è il lavoro, è pagato pochissimo. Anche qui si intrecciano esperienze e desideri complessi, storie progetti e speranze che non si possono appiattire in un obbiettivo univoco.

Penso quindi che il sindacato debba chiedersi che cos’è il lavoro e come creare lavoro, cioè debba decisamente entrare nel campo dell’economia e cercare di ridare un senso al lavoro.

Giorgio Lunghini in un articolo pubblicato su Il Manifesto (15.06.2013) si avvicina al punto di vista delle donne sul lavoro quando afferma:

Non si tratta di uscire dal capitalismo ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano (…) una terra abitata dalle tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto (…) la terra del lavoro concreto, del valore d’uso (…) principalmente lavori di cura in senso lato delle persone e della natura”.

Apprezzo il testo di Lunghini non solo per quello che dice sui lavori concreti, ma anche perché inserisce il lavoro di riproduzione e manutenzione dell’esistenza umana e della natura in un quadro economico più generale. Infatti, sottolinea:

I valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici (…) poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto”.

Sottolineo però, un po’ polemicamente, che la terra di nessuno di cui parla Lunghini è in realtà una terra che le donne conoscono bene per averla percorsa palmo a palmo coltivata e arricchita da secoli.

Invece, anche i più acuti osservatori delle dinamiche sociali, economiche e politiche, come Lunghini, si ostinano a non registrare a livello di paradigmi cognitivi l’esperienza umana delle donne che viene sussunta nel maschile: la sussunzione delle intere vite non è evidentemente appannaggio solo del neoliberismo.

I nuovi soggetti, in cui si intrecciano così radicalmente vita e lavoro, tendono a non delegare a un partito o a un sindacato, ma sono disponibili a partecipare in misura mobile e variabile alle lotte del lavoro. Questo mette in discussione, e in difficoltà, i delegati di oggi che si ritrovano a fare un lavoro tra il consulente, il confessore, l’assistente sociale, la psicologa.

Molte sindacaliste in Agorà hanno detto che spesso sono le donne a fare questo lavoro di ascolto individuale, ma sono poi soprattutto gli uomini a essere in maggioranza nelle commissioni trattanti che finiscono così per essere separate da questo lavoro politico di base.

Molte donne nel sindacato vorrebbero scardinare questa separazione, cioè, vorrebbero rendere evidente e fare accettare il nesso tra queste due parti del lavoro sindacale: cioè tenere insieme contrattazione individuale e contratti generali, centralità dell’esperienza della singola/o che lavora e forza per tutte/i.

Avere donne in posizioni dirigenti e avere i numeri – tante donne – a mio parere non garantisce neppure nel sindacato. Bisogna elaborare con più precisione il nuovo paradigma conoscitivo di tutto il lavoro necessario per vivere, essere dirompenti e portare avanti i propri temi.

Non si tratta più dunque di ripensare il soggetto politico solo come soggetto collettivo. Si tratta di ripensare una conflittualità e un agire politico a misura dei nuovi soggetti. Nella consapevolezza che le vite di tutti sono inesorabilmente singolari e che tutti i pezzi delle nostre vite sono connessi. È tempo di riprendere in mano l’iniziativa nei luoghi di lavoro e anche nei lavori che non hanno luogo (autonomi, parasubordinati, consulenti del terziario avanzato, ecc).

Il lavoro è frammentato e, per un’intera generazione – quella tra i 20 e i 35 – così precario da non avere un senso centrale nella loro vita, pur occupandola. Mi chiedo allora se il sindacato riuscirà a misurarsi – come ha fatto ai tempi dei consigli – con questa realtà che è cambiata così velocemente. Va bene dare autorità ai delegati e alle loro decisioni. Ma perché il sindacato non tenta un confronto, creando luoghi fisici dove incontrarsi con tutte le figure, (informatici, consulenti del terziario, pubblicitari, ricercatori, traduttori) – sia donne che uomini – che lavorano intorno e per l’impresa, piccola media e grande? Un tempo c’erano le leghe. È probabile che oggi non siano più proponibili. L’Agorà del lavoro di Milano era ed è un tentativo in questo senso. La grande forza che il sindacato ha ancora nella nostra regione può nventare altre forme, magari più incisive.

Concludendo. Mi sembra che la profezia di Simone Weil sia attuale: la giustizia sociale, una buona vita per tutti e la libertà per lavoratrici e lavoratori o saranno opera dei lavoratori stessi o non saranno.

La rappresentanza delle organizzazioni – diceva lei e io lo condivido – è un problema importante ma secondario rispetto alla presa di coscienza dei deleganti, i soggetti che vivono e lavorano.

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Uomini donne e lavoro domestico: una sentenza della Cassazione

Segnalo questa recente sentenza della Cassazione così come viene “tradotta” nella rubrica “Fronte / Verso” a cura di www.studiolegalealesso.it che si propone di rendere comprensibile il diritto oltre i rituali linguistici specialistici. Mi preme però sottolineare che la (brutta) espressione “il marito che non può aiutare la moglie nelle faccende di casa” non mi pare sia contenuta nella sentenza. Aiutare o non aiutare la donna infatti, dà per scontato che il lavoro domestico sia per definizione femminile. Forse allora più correttamente si sarebbe dovuto scrivere “il marito che non può svolgere lavoro domestico…” (giordana masotto)

Per la Cassazione il lavoro domestico non è prerogativa delle donne : il marito che non può aiutare la moglie nelle faccende di casa, per lesioni derivanti da un incidente stradale, ha diritto al risarcimento.

Una coppia di coniugi viene coinvolta in un incidente stradale. Il marito riporta gravi lesioni, che lo costringono ad una lunga assenza dal lavoro, dal novembre 2001 al settembre 2003, periodo durante il quale viene assistito dalla moglie.

Si rivolgono entrambi al Tribunale di Venezia per ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti, richiedendo anche la liquidazione del danno derivante dall’incapacità di svolgere le attività domestiche: il marito a causa delle lesioni subite, la moglie poiché costretta ad accudire il coniuge durante il lungo periodo di inabilità.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Venezia, pur accogliendo in parte le domande dei coniugi, respingono quella relativa all’incapacità lavorativa domestica del marito.

La Corte d’ Appello, nel motivare il rigetto della domanda, afferma che “non rientra nell’ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo”.

I coniugi impugnano la decisione davanti alla Corte di Cassazione che accoglie il loro ricorso sulla base dei seguenti motivi:

– la motivazione espressa dalla Corte d’Appello è illogica e gravemente erronea, dato che non è certo “madre natura” a stabilire la divisione delle incombenze domestiche tra i coniugi in base all’appartenenza al sesso maschile o femminile, ma una loro libera decisione.

– l’affermazione della Corte d’Appello è inoltre contraria al principio di uguaglianza dei coniugi, i quali sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia in modo paritario. Pertanto, a meno che tra i coniugi non siano intervenuti accordi differenti, si deve presumere che entrambi si occupino delle incombenze domestiche;

– il lavoro domestico è un’attività che ha un proprio valore economico, non poterlo svolgere costituisce un danno che merita di essere risarcito.

In applicazione di tali principi, la Corte ha quindi affermato che il marito ferito in un incidente stradale ha diritto al risarcimento per non aver potuto aiutare la moglie nelle faccende domestiche.

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Nuovo anno, nuove prospettive per l’Agorà

Dopo tre anni di incontri possiamo dire che – pur nelle difficoltà dell’impegno richiesto, nella discontinuità delle presenze (in grande maggioranza donne dal momento che gli uomini si sono ben presto ritirati) e nella imprevedibile qualità degli incontri – l’Agorà ha generato sapere e ha dato a chi vi ha partecipato “forza per sottrarsi alla corrente”. L’Agorà infatti, viene evocata da tante partecipanti (anche da lontano) come luogo da cui si trae forza.

Oggi, in quel gruppetto che in questi tre anni ha seguito in maniera più costante l’Agorà, abbiamo valutato che la ritualità, cioè l’incontro fisso una volta al mese, ha avuto il pregio di creare un punto di riferimento stabile, ma alla lunga è diventato un po’ una gabbia che tende a escludere le molte che, per le più diverse ragioni, non riescono a partecipare con continuità.

Per questo abbiamo pensato di rinunciare all’appuntamento fisso.

Questa decisione non fa venire meno, per alcune di noi, l’esigenza di continuare lo scambio sull’intreccio lavoro-vita che abbiamo messo a tema con l’Agorà e rispetto al quale, ne siamo convinte, noi donne abbiamo moltissimo da dire e da proporre. Pur nella consapevolezza che il contesto in cui viviamo è davvero complesso e che non ci sono risposte facili.

Per questo proponiamo di proseguire con un gruppo di riflessione che potrà poi ampliarsi con incontri pubblici-cittadini quando avremo messo a fuoco e chiarito bene quei contenuti a cui vogliamo dare maggior evidenza e risonanza.

Il gruppo è aperto e siete tutte e tutti invitate/i.

Ci incontriamo per un primo momento di focalizzazione del lavoro

martedì 20 gennaio alle 18.00
presso la Libreria delle donne di Milano – Via Pietro Calvi n. 29.

Nel frattempo siete tutte invitate a inviare commenti e proposte.

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Il senso del lavoro. Conversazione

giovedì 27 novembre 2014 – ore 17

Conversazione su
Il senso del lavoro. Pratiche e saperi di donne (ombre corte 2014)
a cura del Comitato pari opportunità dell’Università degli Studi di Verona

con Anita Conforti, Antonella Picchio, Giordana Masotto, Pinuccia Barbieri, Annarosa Buttarelli, Antonia De Vita, Giorgio Gosetti, Luigina Armentano, Anna Paini, Veronica Polin

Verona, Università degli Studi, Biblioteca Centrale A. Frinzi, via S. Francesco 20, saletta “Incontro con l’autore”

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Trascrizione dell’incontro Agorà Bicocca

Agorà del lavoro, Università Bicocca, 11 marzo 2014
trascrizione di Pinuccia Barbieri

Carmen Leccardi: “Ci interessa discutere con voi della questione del lavoro e della vita, e partirei dalla questione della vita. Normalmente, in un’istituzione accademica come un Dipartimento di Sociologia si discute di lavoro ragionando a partire da cifre, tendenze, dati sul mercato lavoro.

Oggi facciamo un percorso diverso. Vogliamo iniziare guardando alle esperienze che ognuna, ognuno ha del lavoro; vogliamo guardare anzitutto alle nostre vite. In particolare, e ringrazio gli e le studenti che hanno scelto di partecipare a questo incontro, non possiamo non tenere conto di che cosa significa oggi, essendo giovani, parlare di lavoro (che spesso manca: è sufficiente ricordare il fenomeno impressionante della disoccupazione giovanile oggi in Italia; o, quando c’è, è instabile e precario). Quello dei e delle giovani è un periodo della vita sempre più incerto e dai contorni sempre più sfumati. Non si sa esattamente quando termina né se mantiene ancora il carattere di ponte tra adolescenza e vita adulta. Il suo carattere è dunque, paradossalmente, sempre più autonomo, vale a dire sganciato dall’idea di ‘transizione’ (alla vita adulta appunto). In questo senso è particolarmente importante, mentre ci si interroga su vita e lavoro, interrogare l’esperienza esistenziale di coloro che ne sono protagonisti.

Quali sono dunque, in questo scenario, le aspettative dei giovani uomini e delle giovani donne nei confronti del mondo del lavoro? (Le aspettative sono differenti? Sono sessuate? La maternità come condizione biografica specifica delle donne può modificarle? In quale direzione? Tra l’altro, non è possibile dimenticare che la precarietà che si sta vivendo in questa fase è, come dice Teresa de Martino, il più efficace dei contraccettivi). Le aspettative nei confronti del lavoro per il mercato sono comunque, in linea di principio, crescenti per gli e le studenti, proprio in ragione delle capacità e competenze sempre maggiori che vanno acquisendo. Questo aspetto genera ulteriori, specifiche contraddizioni in rapporto alle condizioni del lavoro oggi.

Marina Piazza ragionerà intorno a questi temi in relazione alla nascita del’Agorà del Lavoro e al suo percorso (molte delle promotrici dell’Agorà sono tra l’altro presenti qui oggi). Per quanto mi riguarda, vorrei sottolineare l’importanza delle innovazioni culturali, delle forme di pensiero inedite in tema di lavoro e di vita, che sono state prodotte dalle donne in particolare nel corso degli anni Settanta, e che hanno polverizzato in senso letterale la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (chi frequenta il corso della laurea magistrale in Sociologia denominato Processi di innovazione culturale, di cui sono responsabile, conosce bene questo tipo di analisi). Nel femminismo dei nostri giorni – c’è chi lo definisce post-femminismo, chi femminismo della terza ondata, ma termini ed etichette non ci interessano qui – il tema del confronto generazionale si intreccia specificamente a quello della precarietà del lavoro e della vita. Quali sono dunque i percorsi della soggettività delle (giovani) donne in questo contesto? Come le nuove pratiche, e aspettative, lavorative modificano il vissuto di sé, l’esperienza, di donne e uomini giovani nei primi decenni del nuovo secolo? E come queste esperienze si distinguono da quelle delle generazioni di donne precedenti – ad esempio le donne del femminismo degli anni Settanta?

Su questi temi si sono prodotti diversi tipi di analisi, articoli, libri ma, mi chiedo, ci chiediamo, che cosa hanno da dire al riguardo le e i diretti protagonisti, le ragazze e i ragazzi che vivono dentro questa precarietà? In questa sala sono tra l’altro presenti più generazioni di donne; dunque, abbiamo tra l’altro un’ottima opportunità di confronto non solo dei punti di vista, ma anche delle esperienze generazionali.

Marina Piazza: “Obiettivo principale di quest’incontro è sentire voi, la vostra voce, quello che avete da dire. L’Agorà, come dice la parola stessa, è una piazza pensante di discussione e di elaborazione aperta a tutti donne, uomini ragazzi e ragazze sul tema del lavoro, delle trasformazioni del lavoro, in una concezione più ampia rispetto a un concetto di lavoro tradizionalmente inteso, che potremmo definire il lavoro necessario per vivere. Dal 2011 si riunisce una volta al mese in un’aula di una scuola civica messa a disposizione quasi gratuitamente dal comune di Milano dalle 18 alle 21.

Vorrei subito mettere in evidenza due punti innovativi.

Il primo punto radicale e innovativo dell’Agorà è che non si tratta di parlare del lavoro delle donne ma del pensiero delle donne sul lavoro che cambia e che il pensiero delle donne sul lavoro e sull’economia è un pensiero buono per tutti ma non perché siano più brave o intelligenti ma perché hanno l’esperienza nella loro vita, della complessità della vita, del fatto che non si può parlare del lavoro se non si parla di cura. Fanno l’esperienza della relazione e dell’interdipendenza. Noi pensiamo ai maschi adulti come liberi indipendenti ma non è vero: siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e l’interdipendenza ci caratterizza come esseri umani, è la radice profonda degli esseri umani.

L’altro punto che mi sembra innovativo radicalmente ma che è carico dell’esperienza maturata del femminismo del partire da sé, è il metodo di lavoro, che vuole parlare del lavoro non oggettivandolo ma unendo soggetto e oggetto. Avete sentito parlare di politiche attive del lavoro, ma se ne parla e non emerge nulla. Invece è necessario partire dalla propria esperienza, dal disagio, dalle piccole vittorie, dall’acquisizione di una consapevolezza di sé, dal sapersi muovere in una situazione radicalmente diversa. L’Agorà è nata delle riflessione del gruppo della Libreria delle donne sul lavoro iniziato dal 94 che poi si è però concretizzato in un gruppo più ristretto di studiose che venivano dal lavoro della conoscenza, da un tessuto di lavoro dentro l’ esperienza milanese, dall’editoria, dal marketing con una pluralità di competenze e hanno sviluppato dalle riflessioni da cui sono nati due scritti. Uno è Il doppio sì ovvero due volte sì al lavoro professionale e al lavoro di cura e di manutenzione dell’esistenza alla realizzazione di sé sia nel campo professionale e affettivo. Il secondo è il manifesto Primum vivere che ha avuto molta risonanza – è stato letto in tutt’Italia- che ribadiva il concetto di base cioè che bisogna riportare a livello politico i nessi tra lavoro professionale e lavoro di cura. La definizione del lavoro come di lavoro necessario per vivere -, primum vivere – e questo implica uno sguardo a tutto campo sul lavoro. Si è partiti dalla consapevolezza che è crollato tutto il grande monumento del lavoro novecentesco, l’organizzazione fordista tradizionale del lavoro (cioè le donne a casa gli uomini nel pubblico). Ma oggi le donne non solo stanno in casa,sono anche fuori. Le donne ci sono e vogliono esserci nel mercato del lavoro ma vogliono esserci portando il proprio desiderio, vogliono vivere la propria vita.

Da questa analisi basata sulle cose dette prima è partita l’interrogazione sul lavoro in senso generale ed è nato un metodo del partire da sè che mi è sembrato interessante. Poi è nata l’Agora, che è un gruppo più vasto- e mi piacerebbe molto che alla prossima Agorà ci fosssero studenti come voi – che vuole metter in interlocuzione anche gruppi diversi, gruppi cha hanno posizioni di base differenti ma per confrontarsi davvero sulla base di esperienze come individui e gruppi.

Volevo fare tre accenni che noi abbiamo individuato come trasformazione del lavoro. C’è un gigantesco problema di ridefinizione del concetto di lavoro, di redistribuzione del lavoro complessivo e di elaborazione di nuovi criteri di valorizzazione e utilità del lavoro complessivo. C’è un intreccio tra lavoro che c’e, che non c’e, che c’è ma non si vede, e questo mix tra questi tipi di lavoro è sempre più intrecciato.

Partiamo dal lavoro che c’è che è sempre meno.

Molti di voi pensano che non arriveranno, o arriveranno con difficoltà a un lavoro a tempo pieno e tempo indeterminato cinque giorni su sette dalle 9 alle 18 e forse non lo vorrebbero nemmeno. In generale si potrebbe dire che c’è sempre meno lavoro e chi è dentro quel lavoro lavora sempre di più e c’è una pressione forte sui tempi soprattutto sulle donne perché è come se le donne chiedessero tempi anche per la vita di fuori, per la complessità della loro vita (non dovrebbe essere così perché ci dovrebbe essere una condivisione del lavoro tra donne e uomini). Il problema del tempo con orari flessibili, di usufruire di un part time che non sia penalizzante, che non si sia penalizzate quando si torna dal congedo di maternità è un problema però anche per gli uomini. Quando un uomo torna dal congedo di paternità è trattato peggio di una donna perché viene considerato un traditore del proprio genere (tu che sei un uomo, dicono, dici che è più importante il tuo bambino e questo perché non sei fedele all’azienda). Il modello attuale di organizzazione del lavoro è ritagliato sul maschio adulto -male oriented – e chiede a ciascuno la disponibilità totale di tempo e spazio, quindi il problema del tempo c è anche per gli uomini ed è forte. . Parlo appunto della valorizzazione del lavoro che ancora oggi è come se fosse un baluardo ottocentesco, non è basato sui risultati ma sulla presenza, se sei bravo e stai qui fino alle dieci, ti promuovo e questo penalizza non solo le donne ma anche i caregiver, quelli che si occupano del lavoro di cura. Diventa centrale la competizione, sparisce il senso di essere dentro un ambiente amichevole,sparisce un senso di amicizia, solidarietà, anche l’utilità, il senso del lavoro. Ricordo una giovane donna che all’Agorà parlava di una sua ricerca di senso, respingendo il gioco al massacro della competizione, respingendo i rapporti di potere, scegliendo di togliersi dal lavoro dipendente, di andarsene e creare un’agenzia in proprio nel web.

E c’è poi il problema del reddito derivato dal lavoro. Abbiamo fatto un’inchiesta sul web in cui hanno risposto quasi tremila donne: la maggioranza di donne è laureata, alcune sono dottorate, e hanno un reddito che va dai mille ai mille e trecento euro.

Parlo ora del lavoro che c’è ma è sempre più frammentato, atipico, precario soprattutto il lavoro che riguarderà voi nella zona alta del mercato della conoscenza. L’uso di forme contrattuali atipiche come partita iva, contratti a progetto che ormai sono norma per le nuove assunzioni. E molti settori del terziario, vivono di questi mal pagati, ricattati, discontinui e gratuiti lavori. Mi dici che il lavoro ti piace e vuoi anche essere pagata? Questo ci si sente dire e non solo tra precari ma anche tra chi esercita una professione autonoma perchè c’è difficoltà a gestire margini di questo lavoro, ci sono momenti troppo pieni quando si lavoro 16 ore al giorno o troppo vuoti quando non c’è lavoro. Un lavoro supplementare è quello di cercare lavoro perché anche cercare lavoro è un lavoro. Quindi anche questo e soprattutto questo è uno dei temi che mi piacerebbe discutere.

Infine il lavoro che c’è ma non si vede ed è il lavoro di riproduzione, cura, manutenzione dell’esistenza, lavoro che serve a far vivere persone dipendenti e bambini ma anche maschi adulti e non è solo lavoro materiale nella casa ma è il lavoro di relazione, di mediazione con le istituzioni, di organizzazione complessiva, di mediazione con la scuola, l’ospedale, ecc-.ecc. Questo lavoro che è moltissimo, che c’è, ma non viene visto o riconosciuto questo è un lavoro che deve diventare visibile perché non sto qui a ripetere le stime, è noto quanto valga, ma praticamente è invisibile. Poi questo lavoro che c’è ma non si vede è il lavoro di aggiornamento e formazione e di autoformazione

Infine il lavoro che non c’è, ovvero la sottoccupazione, la dipendenza economica dalla famiglia di origine sempre più drammatico anche perché le famiglie hanno difficoltà a mantenere figli adulti. C’è lo scoraggiamento c’è molta inattività rispetto la disoccupazione. C’è anche in gioco il desiderio di mettersi in discussione, desiderio di voci di ribellione che cercano luoghi per dirsi.

Il sindacato non prende in considerazione questi tipi di lavoro, si occupa di lavoratori già nel mercato del lavoro, la politica parla di incentivi alla crescita, di investimenti, di job act ma concretamente non si capisce come si possa fare a trovare un nuovo modo di lavorare. E l’Agorà ha voluto rispondere con un altro pensiero e con un altro metodo di lavoro che è il partire dalle proprie esperienze, non solo per raccontarle ma per connetterle insieme, per ripensarle. Con l’obiettivo di decostruire le idee dominanti sul lavoro.

Ci piacerebbe se oggi voi diceste la vostra immagine sul lavoro o esperienze di lavoro mentre studiate, qual’è la vostra postura rispetto a questo mondo.

Carmen Leccardi: “Volevo aggiungere un caso. Marina ha parlato del nuovo e il nuovo è che l’Agorà va nell’ Università, noi siamo i primi di Milano che propone l’iniziativa. Quello che stiamo vivendo è un momento di riflessione comune rispetto quanto è stato detto e trattato dal corso. Si punta alla risignificazione di termini del nostro senso comune e per questo non vengono più interrogati”.

Discussione

Lidia: “Posso parlare della mia esperienza. Studio, non sto lavorando ma ho lavorato per molti anni come cameriera e baby sitter mentre studiavo. Come ambiente di lavoro ero fortunata perché ero in regola e rispettata come lavoratrice e donna. L’ambiente era piccolo e le cose funzionavano. Credo che la mia sia una generazione di confusi e quindi abbiamo/ho un’ansia di dover rendere conto, di dover diventare qualcuno: questo è proprio il risultato della precarietà, se avessimo una strada più certa avremmo meno questo bisogno di riempirci il cv, di imparare le lingue, fare esperienza all’estero (quando magari non ne abbiamo molta voglia…). Riguardo la generazione femminile, quello che vedo, senza offesa per i maschi presenti, è che le giovani donne sono più attive, facciamo più cose, abbiamo speranza, lo vedo dal mio gruppo di amicizie – non so se posso generalizzare – dove i maschi sono più in crisi rispetto a noi. Rispetto alla precarietà: ho pensato a quella che posso vivere oggi e non solo sul lavoro. E’ una condizione di molti giovani, è una precarietà a livello emotivo e sentimentale: siamo coppie spaiate in giro per l’Italia, mantenere una relazione è difficile sia a causa del lavoro non garantito o garantito da un’altra parte, sia perché non sappiamo chi vogliamo essere, fatichiamo a immaginare il momento in cui ci si ferma con un’altra persona e si fanno scelte di un altro tipo.

Intervento: “Non penso di poter parlare a nome della generazione maschile. Per quanto riguarda la mia esperienza, vivo quotidianamente questa ansia non mi sento tranquillo perché sono in una situazione familiare in cui per poter studiare ho bisogno di lavorare, sono costantemente alla ricerca di entrate economiche e mi ritrovo in una situazione in cui il lavoro mi garantisce la possibilità di seguire le mie aspirazioni. La realtà con cui mi scontro è quella di piccole esperienze lavorative saltuarie e precarie, non tanto perché sono a tempo determinato ma perché dipendo dalla volubilità di altre persone. Insegno musica, seguo attività extrascolastiche di una scuola ed è un lavoro che mi garantisce l’università, ma non è un’entrata sicura, tutto è molto saltuario e mi ritrovo in una situazione in cui mi sento dire che sono troppo giovane per avere l’ansia, ho 23 anni e sono troppo giovane anche per fare una famiglia. Mi dicono: hai tempo, ma io invece non penso di averne tanto, sento di volere una famiglia. Ma non posso”.

Carmen: “Dopo la laurea pensi di fare ancora l’insegnante di musica?”

R: “Penso di sì, perché vorrei diventare sociologo ma anche continuare a fare il musicista. Non è semplice ma ci sto provando, una volta laureato proverò a fare il sociologo e vorrò e dovrò continuare a insegnare, anche perché prima di avere un reddito come sociologo ci vorrà tempo.

Intervento: “Quando ho deciso di iscrivermi all’università notavo che tutti i miei compagni delle superiori avevano scelto tenendo conto della situazione economica. Quasi tutti hanno scelto Economia. Io mi sono fidata dell’istinto: poi ci penserò e qualcosa ne verrà fuori. Quando mi sono iscritta volevo anche lavorare perché vorrei avere un’esperienza pratica: l’università italiana ha un approccio molto teorico. Ho cercato subito di lavorare e il fatto di conciliare studio e lavoro non è mai stato grave perché programmo e sono metodica. Il mio primo lavoro è al McDonald e all’inizio mi era sembrato di aver trovato un buon lavoro con contratto di apprendistato ma, man mano che andavo avanti, emergevano problemi come attrezzature non a norma e, nonostante lo si facesse presente, non si veniva ascoltati. Si è creata una rete di solidarietà, eravamo tutti appartenenti a categorie svantaggiate: c’erano laureati, studenti in corso e immigrati con famiglie di due/tre figli che riuscivano a far quadrare i conti. Il clima era molto amicale e bello, nonostante le difficoltà ci supportavamo, parlavamo tra colleghi di lavoro, anche di problemi della nostra vita, è stato molto bello. Poi ho cambiato lavoro perché ne ho trovato uno migliore presso un negozio Vodafone. Qui è diverso, è un modello di lavoro che si trova da molte altre parti, dove spesso gli interessi dell’azienda coprono quelli del benessere dei lavoratori. A volte però alcuni colleghi si identificano negli obiettivi aziendali e dimenticano che il luogo di lavoro è il luogo in cui loro vivono. Secondo me, specialmente adesso, siamo sempre più qualificati e meno certi che le qualifiche abbiano uno scopo, ci si affanna a fare meglio degli altri, a raggiungere gli obiettivi, a fare bella figura, a scrivere tante cose nel cv, ma non c’è l’idea che i giovani debbano trovare lavoro e rispecchiarsi nel lavoro. Però nelle piccole cose possiamo ritrovare il comunicare tra di noi in modo amichevole. Spesso i giovani che vanno a lavorare sono maltrattati, non penso che maltrattare faccia molto bene a chi lavora o deve imparare. I giovani sono confusi, vogliono un lavoro sicuro ma allo stesso tempo sono pochi quelli che trovano un lavoro in cui si rispecchiano… solo dopo tanto girovagare si riesce ad essere sereni”.

Giordana Masotto: “Dicevi che alla McDonald, dove il lavoro era “più schifoso” c’erano rapporti più caldi e significativi che non in un ambiente dove tutti hanno l’aria di essere amici ma in realtà c’è più disprezzo”.

R: “Sì, anche per la difficoltà del lavoro. Nel campo della telefonia c’erano gli incentivi sugli abbonamenti, il Mc è un lavoro di ristorazione, l’ho sempre considerato una catena di montaggio, è un lavoro fordista. C’era possibilità di fare carriera ma tra i giovani universitari non si puntava a quello, magari qualcuno che aveva famiglia sì, ma era più una questione economica.”

Intervento: “Ho la fortuna di lavorare a tempo indeterminato da quindici anni, anche se sono passato da un settore a un altro. Tornando a quello che è emerso prima sulle aspettative: oggi le aspirazioni dei giovani sono poche e si sente dire che sono mammoni. Otto anni fa nelle selezioni per l’azienda per cui lavoro eravamo in cinquanta, ma hanno accettato solo in sei perché si lavora con turni, compresi sabato e domenica. Lavoro per Atm che è un’azienda che negli ultimi anni ha investito tanto, però molti rifiutano in quanto si pensa che chi studia troverà qualcosa di meglio (che poi non c’è). Ho dei compagni che, pur essendo giovani, sono molto preparati. La cosa peggiore è che dovranno scontarsi nel mondo del lavoro con persone con competenza zero. L’università serve per aprire la mente. Ma la cosa peggiore, e lo vediamo in ambito politico, sono le persone che ricoprono ruoli importanti senza la minima preparazione. E questo succede anche nelle aziende.”

Intervento: “C’è una grande discussione in ambito politico e anche in parte sindacale sul reddito di cittadinanza o reddito di base, ci sono varie sfumature di questo concetto, alcuni non lo chiamano reddito di cittadinanza perché vogliono tenere separato il concetto dalla cittadinanza, chiamiamolo quindi reddito di base. In una situazione chiusa come quella in cui ci hanno rappresentato, noi non sappiamo se questo concetto in qualche modo è di loro interesse, se hanno aspettative o prescindono totalmente da questa ipotesi”.

Lia Cigarini: “Reddito di cittadinanza vuol dire che, per il solo fatto di essere al mondo, hai diritto a un’esistenza degna, ad avere garantita una sopravvivenza. Ne abbiamo discusso molto all’Agorà: voi che cosa ne pensate?”

Intervento: “Può avere un senso. Nella mia esperienza ho fatto dieci anni nella ristorazione. Il contratto che comprende un sacco di lavoratori in Italia risale agli anni ’50 e si è bloccato lì. Quel contratto è fermo, una persona nella ristorazione ha uno stipendio basso e se protesta o sciopera viene colpita e accusata, anche dalla società. Quello che è stato conquistato negli anni 70 è andato perso”.

Intervento: “Per quanto mi riguarda sono a favore del reddito di cittadinanza. In questo momento storico può esser un elemento che può disciplinare il lavoro. Può contribuire a ricalibrare il rapporto tra capitale e lavoro. Sono fortunato, non ho mai dovuto lavorare per studiare, tuttavia fra un paio d’anni mi laureo e non credo che con la mia formazione sarò ben inserito. Il reddito potrebbe darmi autonomia lavorativa e spingermi a emigrare. Andare in Paesi europei dove la nostra formazione viene riconosciuta può essere una soluzione, anche se rivendico il diritto a restare.”

Intervento: “Quando ho fatto l’università c’è stata la riforma della scuola in direzione di un modello funzionale all’inserimento nel mondo del lavoro. E’ un’illusione che è stata creata, la riforma ha portato l’università a essere un passaggio, mentre in realtà dovrebbe aprire la mente”.

Intervento: “A proposito del significato del lavoro, penso che sia in corso una sua forte ridefinizione. Se una volta si lavorava per la famiglia e ci si realizzava nel mondo extralavorativo ora per me è diverso, il lavoro è un momento di realizzazione personale, per mettere a frutto tutte le competenze maturate con lo studio. Sul reddito di cittadinanza: sarebbe buono se il lavoro in cui mi realizzo e che non mi basta come reddito fosse integrato dal reddito di cittadinanza. Per quanto riguarda l’università: non è solo un momento di passaggio, ma una fase molto lunga e molto importante. La nostra facoltà ci aiuta molto a scoprire e ad aprire le nostre menti, stiamo acquisendo molte informazioni, conosciamo i servizi dove lavoreremo e per il momento impariamo a usufruirne. Ci viene richiesto di fare tesine, organizzarci con gli esami, discutere sul tema del capitale sociale, dell’innovazione e noi dobbiamo approfondire e cercare attivamente situazioni di innovazione culturale e sociale come per es. il co-working”.

Stefania: “Mi ricollego al reddito perché in questo momento c’è una battaglia politica seria da fare e tutti i movimenti parlano di reddito. Io parlo di reddito di autodeterminazione o bioreddito, piuttosto che di reddito di cittadinanza dove può emergere anche il concetto di esclusione. Sarebbe una possibilità per introdurre un altro diritto che è il diritto di scelta e che vorrei avere, al contrario del diritto al lavoro perché – per come è organizzato – mi fa venire l’ansia in quanto non possiamo sapere quanto il lavoro assorbirà le nostre vite. Vita e lavoro non sono separati. Tutte le nostre capacità sono sfruttate. Io mi considero fortunata perché ho un reddito per la ricerca su cui ho un investimento erotico intenso. Non saprei dove inizia la mia vita e dove il lavoro, e ci sono stati momenti in cui non percepivo reddito mentre facevo lavori di ricerca. Non sono giovane, ho 34 anni, e rivendico tutti gli anni e le cose che ho fatto, sono adulta e sono contenta perché riesco, anche grazie alle mie esperienze, a trovare i lati positivi, nonostante la criticità del periodo. Questo investimento delle nostre vite sfruttate è stato pari. Quando invece ero all’interno di una cooperativa con donne migranti: il luogo era più strutturato come orari ma mi sentivo risucchiata in senso negativo. La questione del reddito potrebbe creare opportunità, anche nel diritto alla formazione. Un’altra cosa che potrebbe aiutarci potrebbe essere il non fossilizzarsi sulla dicotomia donne e uomini. Per l’esperienza che stiamo vivendo, mi sento meno vicina a una donna che ha un contratto a tempo indeterminato e vuole un figlio invece che a un ragazzo con attività in proprio che studia, anche se ha un desiderio di paternità. Al di là della differenza tra donne e uomini, si potrebbero creare alleanze all’interno del medesimo contesto. Se avessi ragionato così avrei ceduto al ricatto di un lavoro stipendiato più sicuro per fare cose che però non desideravo.

Intervento: “Sono superadulta, lavoro da più di trent’anni nel campo dell’insegnamento e concordo pienamente con quello che ha detto la dottoressa e cioè che la donna non è vittima, la donna è uguale a tutti gli esseri umani e ha stessi gli diritti e le stesse possibilità degli altri. Questo personalmente l’ho realizzato, anche se ho vissuto in diversi paesi europei dove ho lavorato e sono sempre riuscita a trovare lavoro, forse perché con l’insegnamento riuscivo a entrare dappertutto. Ho insegnato da inglese a economia all’università, perché sono laureata in economia. Ho notato che nel vostro paese il mercato del lavoro è chiuso, è diverso da quello di altri Paesi. Sono stata fortunata perché avendo un background solido di inglese con studi in economia ed essendoci in questo campo una carenza di insegnanti mi sono inserita bene. Però sento tantissime persone che hanno perso il lavoro e non ne trovano un altro. Io rispondo che se io, che sono straniera, ho trovato lavoro subito lo potete trovare anche voi. Quello che manca nelle donne è la fiducia in loro stesse e la determinazione a seguire il loro sogno. In questo momento sto insegnando, seguo i corsi, ho una famiglia da gestire e faccio tutto cercando di essere all’altezza, non è facile, voi lo sapete, ma mi piace tanto quello che faccio che non lascerei mai perdere. Sto seguendo il mio sogno perché ho iniziato il dottorato in Inghilterra avendo tre figli, studiavo di notte ma non ce l’ho fatta a finire per cui faccio la magistrale in sociologia per poter conseguire il dottorato. L’Università dovrebbe essere sensibile nei confronti ai problemi degli studenti che lavorano e studiano: non devono essere penalizzati, messi a fare corsi da non frequentanti con più libri da studiare.

Intervento: “Io sono una figura distanziata, sono diversamente giovane e sono un infiltrato, sono una figura post moderna… da lavoratore mi sono messo in testa di fare l’intellettuale, il sociologo. Ho fatto la triennale e seguo la magistrale. Ho lavorato trent’anni, ho fatto il delegato sindacale. Questo tema avrei voluto sentirlo da altri soggetti, dal sindacato, dai partiti, dai governi invece non è così, il lavoro è determinato in un certo modo. Il lavoro e il mercato del lavoro è il soggetto sociale più colpito e massacrato dalla crisi sociale dalla globalizzazione. Vengo da un generazione degli anni ’70, abbiamo preso la parola, abbiamo cercato di capire la società, abbiamo fatto lotte ma c’era il patto sociale, il futuro era una promessa, mentre oggi è una minaccia. Nel giro di vent’anni l’immagine si è ribaltata, sono stupito dall’atteggiamento passivo dei giovani, può il 40 per cento dei giovani stare fermo? Quando sento parlare del partire da sé, dico che è importante perché soggetto e vita quotidiana sono un momento di lettura e trasformazione, ma è una partenza difensiva perché non c’è soggetto collettivo in grado di fare parola. Come dare parola ai soggetti che iniziano a parlare? Apprezzo questo sforzo, è un ragionamento per uno scenario che abbiamo di fronte, ma i grandi raduni degli anni ’70 non ci sono. Come immaginare un lavoro diverso? Trovo rivoluzionaria la proposta di mettere insieme tempo di lavoro e di cura. Conoscete come funziona il lavoro nelle grandi aziende? Dal punto di vista concreto il mondo del lavoro è arretrato? Trovo allucinante che in un paese come il nostro non ci sia reddito di cittadinanza”.

Intervento: “Per quanto riguarda il reddito minimo, lavoro a tempo pieno da dieci anni in un’associazione per disabili. Presto sarò anche imprenditrice perché la nostra struttura avrà tagli e apriremo una cooperativa. Faccio le notti, lavoro i fine settimana e guadagno 1000 euro. Fine. Se penso a un reddito uguale anche per chi non fa nulla, mi scoraggio all’idea di andare a lavorare. Seconda cosa: penso che l’Italia non sia pronta a gestire un reddito minimo perché ci sono altre cose come il welfare. E poi devo dire una cosa impopolare riguardo a quello che ha detto Stefania. Io nel lavoro mi confronto con colleghi uomini ma devo rimandare il fatto di diventare mamma se voglio lavorare, cosa che gli uomini non devono fare. I miei colleghi non devono rinunciare al lavoro e rifletto molto sul ruolo della donna rispetto all’uomo: anche se ci sentiamo più competitive i nostri tempi di vita sono molto diversi. Si dovrebbero agevolare le donne, anche nel percorso di autodeterminazione, perché è il primo passo prima del reddito”.

Giordana Masotto: “Rispetto a queste ultime battute sulla posizione degli uomini e delle donne. Quello che ho vissuto dall’alto della mia età all’interno del movimento delle donne non è tanto identificare la posizione della donna come un femminile definito e normato. Tu dici ‘mi confronto meglio a volte con gli uomini’. Non abbiamo l’idea di un’identità fissa a cui aderire o no. La novità sta nel fatto che ora ci sono molte più donne con posizioni di forza e autonomia nel mercato del lavoro. Questo ci fa dire che quando ci sono le donne nel mercato del lavoro si può rimettere in discussione il lavoro stesso. C’è connessione, interferenza, non sono problemi delle donne ma problemi del lavoro. Non è dire siamo donne e pari ma siamo differenti, perché nel lavoro portiamo e abbiamo portato una postura, una voglia di realizzazione, una voglia che ha tante diversità quanti sono i soggetti che esistono, una voglia di non rinunciare a nulla. Noi diciamo il punto di vista delle donne perché sono le donne che hanno questa esperienza diversa e portano nel lavoro e nello studio questa complessità che ora sentono anche gli uomini. Quando sento parlare dei desideri rispetto al lavoro, mi pare ci sia troppa ansia performativa. Invece la passione e le relazioni vanno valorizzate, al lavoro ci si dovrebbe andare felici. Insomma: adesso è il momento per rimettere in discussione cosa vogliamo dal lavoro e dalla vita, come donne, cioè soggetti forti che portano nel lavoro non un ruolo definito da prendere e rifiutare ma la complessità che interessa tutte e tutti.”

Intervento: “Sono iraniana. L’Iran è diverso dall’Italia, in generale nel lavoro c’è il problema di trovare occupazione per le donne ed è un problema forte. Se le donne vogliono lavorare devono trovare un luogo sicuro perché concetti come reputazione e verginità sono importantissimi in Iran. E se un uomo pretende rapporti sessuali sul posto di lavoro non demorde, questa è la situazione. Quando lavoravo il mio reddito era più basso rispetto a quello degli uomini. Al governo non piace che le donne lavorino, anche nella legge c’è scritto che sono gli uomini a dover mantenere la famiglia. I lavori all’interno del governo sono i più sicuri per le donne, ma sono pochi. Fanno inoltre selezioni in cui fanno molte domande sulla vita privata e la fede religiosa. Ho cominciato a lavorare a 18 anni perché prima era pericoloso, anche alla mia famiglia mi hanno detto di non lavorare così presto. Ho iniziato all’interno dell’Università un lavoro che non era perfetto ma ho cominciato. Ho altri amici in un gruppo e organizziamo conferenze o feste o altri eventi nell’università. E’ come un’attività culturale. Era come un gioco e ci hanno pagato, ma non volevo soldi, non era importante all’inizio ma dopo due anni sì, volevo denaro e lavorare. Ho cercato tantissimo ma studiavo sociologia e non trovavo un lavoro buono. Mi è piaciuto il lavoro di ricerca, ma la ricerca non è importante in Iran. Neanche se hai la laurea magistrale. Per questo motivo ho trovato lavoro in un’agenzia demografica, sono intervistatrice, devo organizzare questionari e ho capito tante cose del mondo del lavoro. Ho capito che il mio datore di lavoro mi paga meno. Un giorno un uomo dell’istituto demografico mi ha detto che mi ha pagato di più, ma so che non è vero. Ho lavorato come assistente di una dottoressa ed era tutto diverso, lei pagava meglio. Per quanto riguarda la mia famiglia, è libera ma, nonostante ciò, mio padre mi chiedeva il motivo per cui lavoro.

Fabiana: “Non sono d’accordo con l’idea di generazione passiva, penso che siano le donne a essere poco determinate. Io vengo dal Sud, una realtà complessa dove una donna su cinque lavora e fa lavori dequalificati con orari particolari o lavora in nero. Ricordo con un sorriso quando dissi al mio prof di filosofia del liceo che volevo studiare sociologia. Mi ha risposto che non andava bene perché sociologia è una facoltà di serie B. Ho seguito il mio istinto perché è la mia passione e riesco per il momento bene. All’inizio volevo mantenermi da sola, lavoravo nell’ambito dell’animazione, ma non riuscivo a conciliare bene le due cose perché il part-time in realtà era un full time. Questa è una generazione attiva, ho messo da parte i soldi e mi sono trasferita a Milano. Ho aspettative più alte riguardo al mondo del lavoro perché provengo da una realtà complicata, però anch’io vivo in una situazione di ansia permanente. I miei hanno investito nei miei studi, però – al di là del reddito – voglio un lavoro che mi piaccia. Ho provato a confrontarmi dopo la triennale con il mercato del lavoro e mi veniva detto che con questa laurea c’era poco o niente. Al di là della forte ansia per il futuro, so di essere più determinata di prima, mi dovrò confrontare con il mercato del lavoro ma non mi sento demoralizzata né penso di appartenere ad una generazione di passivi. Molti miei amici di Napoli sono venuti a Milano, altri sono in Germania, nessuno è rimasto a casa a subire la situazione passivamente.

Intervento: “Concordo con Fabiana, anch’io sono del Sud, vengo da una realtà ancora più piccola e difficile. Per rispondere a Elisabeth e Gianfranco che ci vedono come una generazione passiva. Elisabeth ha detto che le opportunità ce le abbiamo, ma non approfittiamo. Non è così, molti del Sud prendono le valigie e vanno in cerca di opportunità. Il fatto di allontanarmi da casa non l’ho visto come una cosa negativa, l’ho visto come cosa positiva, una possibilità di apertura mentale che può consentire anche a persone del mio paese di vedere un mondo diverso. Nel mio paese c’è una controtendenza rispetto ai miei genitori. Un tempo si tenevano le figlie femmine a casa, ora noi ragazze ci siamo mosse per cercare opportunità e molte ragazze si sono affermate fuori dall’Europa mentre molti ragazzi restano nel paese impiegati nelle fabbriche come operai o in ospedale o in attività come l’allevamento e l’agricoltura. Molti amici mi dicono: studia anche se perdi tempo e soldi. Sono fortunata ad avere una famiglia che mi mantiene agli studi, ma questa certezza non mi porta ad essere spensierata per cui mi impegno e voglio dare loro soddisfazione. Quando penso al mondo del lavoro non penso solo al reddito, mi auguro di avere un lavoro che mi soddisfi e consenta vita dignitosa.

Maria Grazia: “Un po’ di anni fa per il dottorato mi sono occupata di problemi occupazionali nel Sud e la situazione è drammatica, molto più grave di quella descritta. Quello che sto notando è una sorta di dimissione e non so dove collocarmi perché non sono più giovane. Mi sembra che da un lato ci siano gli uomini, dall’altro gli anni ’70. Quello che dovrebbe esserci è un’unione di esperienze. Il reddito di cittadinanza? Nasce da una mancanza, non lo vorrei. So che può diventare uno strumento politico, non posso dire ‘mi piace’. Ma c’è una mancanza che ferisce. Io lavoro in accademia da un po’ di anni e quello che posso dire è che resistiamo, mischiamo le esperienze da intellettuali analizzando la realtà sociale”.

Intervento: “C’è difficoltà a capire la pratica politica del partire da sé come cambiamento dell’immaginario. Ha forza, ma è lenta e ha bisogno di uno scambio continuo. Anch’io sono del Sud e quando sono ritornata ho vissuto una sensazione di sradicamento. Quando sono arrivata a Milano ho reagito e ho tenuto alte le aspettative, ma mi piangeva il cuore a vedere quella situazione. L’aspettativa era costruita rispetto all’immaginario del lavoro e parlandone potevo calibrare certe posizioni e ottenere quel di più”.

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