A Milano, un’agorà del lavoro

Per riportare l’esperienza e il discorso su tutto il lavoro
al centro dello spazio pubblico

Valentina ha 29 anni e deve cambiare lavoro. Ne sente lo stimolo, la necessità, l’impellenza e contemporaneamente è consapevole del proprio capitale inespresso: sa di avere qualcosa da fare e da dire, ha la voglia e il bisogno di dirlo forte ma non trova in sé “la miccia per accendersi e prendere fuoco”. Sentendo la storia di Valentina, ho pensato: ecco, l’agorà dovrebbe servire, tra le molte cose possibili che abbiamo immaginato, anche a questo. A far sì che Valentina scopra che cosa significa per lei cambiare lavoro ed esprimersi più interamente.

L’idea di un’agorà del lavoro a Milano ci è venuta ragionando, nel Gruppo lavoro della Libreria delle Donne di Milano, sull’impatto del nostro Sottosopra – Immagina che il lavoro (testo in www.libreriadelledonne.it/news/articoli/sottosopra_ManifstoLavoro.pdf ), dopo un anno di diffusione. Un anno ricchissimo, fatto di innumerevoli incontri e dibattiti, di sollecitazioni e interrogativi, che ci ha spinto ad andare oltre.

Che cosa pensiamo in concreto quando diciamo agorà? Pensiamo a un luogo aperto a donne e uomini che vogliono liberamente dire e ascoltare esperienze e pensieri sul lavoro così come si presenta oggi, intendendo per lavoro tutto il lavoro necessario per vivere. Un appuntamento fisso, che diventi un punto di riferimento in città. Un luogo dove ognuno e ognuna si senta autorizzata a proporre il suo desiderio, il suo racconto, il suo dubbio, la sua fatica, la sua voglia di approfondire. Dove esperienze e pensieri si connettano e producano trasformazioni e pensieri nuovi. Un luogo in cui i conflitti del presente siano all’ordine del giorno senza censure. Uno spazio che sappia proiettare nel luogo pubblico i singoli soggetti, le storie di ognuno. Un luogo che sia insieme concreto e simbolico. In cui tornare con fiducia e dove far tornare ciò che si riesce a fare e cambiare, e che dia valore politico ai cambiamenti individuali.

Possiamo dire qualcosa di più specifico: pensiamo che l’agorà sia un luogo in cui generazioni diverse di donne possono incontrarsi. Provando a colmare le distanze che le separano e trovando parole per superare l’isolamento che caratterizza la condizione di lavoro oggi. Un isolamento che ha radici sia nella diversità di esperienza politica e relazionale sia nelle vorticose trasformazioni del mercato del lavoro.

Ciò significa anche andare oltre l’esperienza dell’autocoscienza. Le più mature di noi infatti sanno bene che negli anni ‘70 la presa di coscienza, la presa di parola di donne insieme, funzionava perché riguardava soprattutto territori molto prossimi: le relazioni con gli uomini, il proprio corpo, la sessualità, i tempi e le priorità della propria vita. Il cambiamento nasceva dalla consapevolezza di sé ed era a portata di mano. Non facile, ma a portata di un’azione personale, della propria scelta e iniziativa. Questo non riguardava solo il cosiddetto privato, perché ad esempio anche molte delle donne che militavano in gruppi politici ne uscivano e cominciavano a fare riunioni di sole donne. Infatti dicevamo: il privato è politico. Ma oggi noi parliamo di lavoro: nel lavoro c’è un gradino in più e di questo dobbiamo prendere atto. L’autocoscienza, il partire da sé, come pratica politica di libertà e di cambiamento, devono ora fare i conti con questo tema.

E il lavoro ha a che fare con le leggi dell’economia e del diritto, con rapporti di forza e interessi contrastanti, con l’iniqua distribuzione del reddito, con la differenza, in Italia, di occupazione tra Nord e Sud. E con la politica dei sindacati e dei partiti che presidiano il territorio teorico e organizzativo del lavoro, senza farsi molto contaminare almeno fino ad ora, dal nuovo pensiero delle donne. Nonostante ci sia un grande impegno in molte donne di quelle organizzazioni, a dibattere questi nuovi contenuti. Tuttavia, mentre noi cerchiamo di capire di più, di elaborare pensiero, il territorio della politica sul lavoro rimane ben saldamente occupato. E non mette a fuoco quello che noi consideriamo il punto fondamentale: che non si tratta di parlare del lavoro-delle-donne, ma di un nuovo punto di vista generale, del pensiero delle donne sul lavoro che cambia. Cioè di che cosa cambia nel lavoro, nelle analisi e nelle politiche, a seguito della presenza di massa delle donne nel lavoro retribuito. L’agorà potrebbe far fare passi avanti in questa direzione.

Che senso ha oggi proporre un luogo pubblico di incontro sul lavoro? Prima di tutto è un’occasione per incontrarsi senza chiudersi in steccati, senza fare del pensiero elaborato fin qui un’identità nella quale arroccarsi. Vorremmo dare corpo a un’esigenza forte di scambio e confronto, di contaminazione, che sentiamo viva intorno a noi e che attraversa i molti gruppi e singole donne che in questi ultimi anni a Milano hanno pensato e scritto di lavoro. È una scommessa difficile, ma necessaria se vogliamo essere presenti in modo non accessorio,  puntando all’essenzialità delle cose, al cuore dei problemi.

In secondo luogo questa proposta è legata alla natura politica del Gruppo lavoro. Che prima ci ha spinto a dare al nostro pensiero la forma del Manifesto, che è un modo di dichiararsi e di aprirsi al confronto. E infatti Immagina che il lavoro continua a circolare e a far discuterne. L’agorà rappresenta un passo successivo: è il tentativo di creare un luogo pubblico, visibile e radicato nella città, che sia espressione di politica viva. Quella che può nascere in primo luogo dalle donne quando agiscono la propria libertà. E noi vorremmo vedere segnali di una rivolta delle donne, e non solo delle donne, rispetto al lavoro e alle sue politiche così come sono agite, concepite e organizzate da questa politica e da questa cultura. Vogliamo ripartire proprio da questo nucleo della libertà delle donne.

Nel nostro parlare di libertà femminile non c’è ritorno al passato: nessuna nostalgia dei vecchi ruoli o proposta di nuove gabbie identitarie, anzi una gran voglia di rimescolare molte carte. A partire dalla politica, che proprio la libertà femminile mette in discussione. Perché nel lavoro di relazione, e per alcune donne nell’esperienza della maternità, c’è un intreccio di necessità e libertà, una contaminazione tra scelta e costrizione. Le donne fanno la spola incessantemente tra libertà e necessità, tra piaceri e doveri e forse per questo fanno passare la propria libertà anche attraverso la necessità. Al contrario, nel pensiero maschile corrente, viene dato per scontato l’antagonismo tra il regno della necessità e quello della libertà.

A questo proposito mi torna spesso in mente una scena di quel film bello e divertente che è We want sex. A un certo punto le operaie aspettano di essere ricevute dalla ministra: sono nel cuore della loro lotta, al massimo della loro combattiva determinazione, e un giornalista chiede: “come pensate di cavarvela se la Ford continuerà a dire di no?” La protagonista lo guarda perplessa e dice: “beh, è una domanda scema da fare a delle donne”. Infatti, come cavarsela, come vivere la propria libertà proprio quando ti trovi nel cuore della necessità, è esattamente ciò che le donne storicamente sanno fare meglio. Dimostrano questa capacità di reagire allo stato di necessità e di cavarsela, di trovare una strada in situazioni che sembrano senza sbocco. Hanno la stessa attitudine di applicazione feroce ai compiti che si danno, che è il modo in cui le donne per esempio lavorano e lavorano bene, studiano e studiano bene. L’eccellenza delle donne ha anche molto a che fare con questa capacità di misurarsi con la realtà facendo la spola dentro le necessità.

Ripensare la politica parte anche da qui. Noi pensiamo che sia possibile partire dalle necessità e contemporaneamente agire e fare scelte di libertà. Certo, questa capacità delle donne di fare la spola tra necessità e libertà, tra questi due modi di affrontare la realtà, cambia l’idea di conflitto. Il conflitto è un’idea che oggi non trova molto spazio nella concezione che si ha della propria esistenza. La cultura vincente ci dice che dobbiamo impegnarci individualmente, aver chiari gli obiettivi, fare un progetto della nostra vita e avere successo. Essere perfetti e felici senza ombre.  Dipende tutto da noi. Il conflitto qui non trova spazio, anzi è vissuto come segno di sconfitta e insuccesso. Sotto questa cancellazione, rimane forte, anche se spesso travestita, un’idea di conflitto, condivisa più spesso dagli uomini ma non solo, inteso come guerra di cancellazione dell’altro/a. Un’idea che viene praticata nelle relazioni, nei rapporti di lavoro, nel mondo della politica. Certamente a partire dalla nostra esperienza di donne, da questa idea della spola tra necessità e libertà, vediamo che è possibile un’altra idea di conflitto, un’idea viva e relazionale, che vede le differenze e vi si rapporta senza soccombere. E senza aspirare ad essere assorbiti nel “grande pensiero unico”.

Quanto e come e dove il conflitto è necessario? Questo è l’altro punto su cui nell’agorà possiamo spingerci oltre. A partire da questa nostra capacità di fare la spola, di trovare libertà anche a partire dalla necessità. Ma vedendo che l’altra faccia di questa capacità è la fatica che facciamo a sostenere pratiche conflittuali: spesso ci torna meglio costruire luoghi e modi a nostra misura che non sopportare di tenere aperte le contrattazioni. Però io credo che ripensare il conflitto, senza negarlo e senza soccombere, appartenga profondamente all’oggi.

Giordana Masotto

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