Non voglio più essere clandestina al mio fare

Leggendo l’articolo “Dire tutte insieme dei no che pesino” e i due commenti, sento l’urgenza di dire delle cose, come mi vengono fuori, magari in maniera rigida e me ne scuso in anticipo. Lo faccio perché anch’io seguo l’Agorà del Lavoro da quando è nata (sono approdata a Milano con amiche reggiane al seguito di “Immagina che il lavoro”) e ormai ho delle emozioni che si stanno concretizzando in parole e quei tre interventi me le stanno tirando fuori.

E’ come se declinassimo due diversi sentire, due diverse idee per due categorie di lavoro, che nominiamo lavoro alla stesso modo, ma a cui non diamo lo stesso valore. E mi sembra che questo succeda quando parliamo del lavoro o dei lavori come fonte di reddito, attribuendo al reddito (che ci vuole, anzi, ma non è questo il punto) la valorizzazione delle nostre intelligenze e delle nostre capacità personali come “riconoscimento sociale”. E il reddito, lo sappiamo, l’abbiamo solo se lavoriamo fuori casa.

Allora: se lavoro in casa e non ho reddito, ma solo risparmio, non ho capacità personali e intelligenza e quindi nemmeno riconoscimento sociale, a partire da me? Mi pare che sia questa
la logica sottintesa, quella dentro cui ci scontriamo da sempre nelle nostre vite femminili e credo anche dentro l’Agorà. E mi pare sia anche quella da cui dipende la nostra singolare e collettiva autostima e la nostra conseguente capacità contrattuale…

Io personalmente, però, non so più stare dentro questa contraddizione che non sento mia da un po’, ma che, in qualche modo, ho dovuto adottare, come quasi tutte noi. Tutti i ragionamenti tra lavoro di cura e lavoro retribuito, mi sembrano vadano a infrangersi su questo scoglio.

Ma non si parlava di “tutto il lavoro” che serve per vivere, anche quando abbiamo iniziato l’Agorà? Se è “tutto”, dobbiamo riconoscere a tutto quello che facciamo per vivere, l’intelligenza e le capacità personali che servono per farlo.  E per prime lo dobbiamo fare noi, io. Dobbiamo riconoscerci quel “riconoscimento sociale” che chiediamo agli altri. Senza perpetuare la dualità in cui ci siamo trovate. E, tra parentesi, vorrei sottolineare che io non vivo per lavorare, ma lavoro per vivere nel miglior modo che mi è possibile, e voglio che “tutto” quello che faccio abbia un senso, persino se mi retribuissero per un lavoro ripetitivo.

Ma dentro la dualità dei miei fare, rischio di perdermi se penso di valere solo se mi pagano. Non posso pensare di essere clandestina a una parte del mio fare, anche se questa mia clandestinità è ufficialmente ben-voluta, protetta: perché io lo vedo passare il mio, il nostro valore, dalle mie mani e dalla mia testa quotidiamente, dentro e fuori casa.

Forse dobbiamo precisare il significato che diamo alla parola lavoro. Quello che gli ho dato io per molto tempo, accettando il conio di altri, non mi va più bene. E così, quando lo ritrovo in giro, sento che mi fa male tornare a pensarlo identico a sempre.
Ho bisogno di uscire – non da sola ma anche da sola – da un luogo simbolico dove, se faccio una cosa non valgo, ma se ne faccio un’altra, magari cambiando edificio, valgo e lascio che mi (ci) definiscano perché mi pagano. Voglio valere, e valgo, qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi edificio lo faccia, mio o di altri che mi retribuiscono per farci le loro cose.
Vale comunque quello che faccio, pagato o no. Perché serve per vivere e spesso non solo per la mia vita, ma per una serie di persone di entrambi i sessi con cui ho una relazione affettiva e forse anche per quelli/e con cui non l’ho.

Se le cose stanno così, è a partire da me che devo valorizzare tutto il lavoro che serve alla vita, perché se conservo la dualità, se il non pagato conta di meno, figurarsi cosa autorizzo negli altri contro di me, contro di noi, ma anche contro di loro…
Forse nell’Agorà dobbiamo cercare di raccontare meglio quel “tutto”. Così come dobbiamo precisare meglio quella “cura” rimessa finalmente in discussione dalle donne del mercoledì di Roma, un bisogno forse nato da una discussione che si è tenuta a Torreglia nel penultimo seminario di “Identità e differenza”. Parole queste che credo siano state legate insieme dalle donne di “Immagina che il lavoro” e prima ancora dal “Doppio sì” della Libreria delle donne di Milano.

Parole che devo (dobbiamo?) rivisitare per non dovermi più dividere tra lavoro di casa e fuori casa, e sentirmi (sentirci?) bene o male di conseguenza.

Clelia Mori

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Una risposta a Non voglio più essere clandestina al mio fare

  1. Donatella Massara ha detto:

    Ringrazio molto Clelia per questo suo pezzo che voglio segnalare immediatamente sul sito di cui mi occupo Donne e conoscenza storica, lei esprime bene la concezione del lavoro come totalità. Sento in lei oltre all’intelligenza della situazione generale il dolore che esprimeva mia madre che dopo sposata si era affidata alla valutazione di mio padre, rinunciando a fare la maestra, un lavoro che le piaceva moltissimo. Era una vera sofferenza per lei sentirsi definire ‘una che non lavorava’ perchè stava in casa a curare la famiglia. E si ribellava al linguaggio che la definiva con convinzione, spiazzando ogni ragionamento consolatorio che tentasse di aggiustare al meglio la considerazione di quello che stava facendo. Purtroppo il valore ce lo diamo sempre da noi stesse, in prima istanza. Irrita però accorgersi che quelle (o quelli) che stimiamo – per altri motivi dal lavoro che svolgono e dal reddito che percepiscono – non riescono a considerare con ampiezza tutte le varianti esistenti, in questo caso, del lavoro. Avendo per di più la presunzione di avere la capacità di sintetizzare (o simbolizzare) fra le tante varianti della molteplicità del mondo. Mentre vedere le diversità, concepirle in una visione che le nomini, conoscendole, e valorizzare la differenza femminile potrebbe essere una pratica e un pensiero strategicamente straordinario.

    Donatella

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